L’obiezione di coscienza

[…] se la buona fede basta a giustificare la coscienza personale di chi dà il comando, non basta a far tranquilli sulla bontà di esso coloro che ne vengono impegnati per obbedienza. La coscienza non può abdicare interamente nelle mani di nessuna creatura, fosse il più grande degli uomini o il più santo. Il cristiano, pur obbedendo alle gerarchie ecclesiastiche che tengono quaggiù il luogo del Signore, non fa rinuncia alla propria anima. Non ci si salva per delega. Ognuno risponde della propria anima, come risponde del proprio prossimo. Il comandamento di qualsiasi uomo può avere qualche cosa di falso o di ingiusto, poiché il Signore, all’infuori dell’infallibilità del pontefice contenuta in termini rigidissimi, non ha garantito nessuno contro le sorprese del maligno. Quindi anche l’ultimo cittadino ha il dovere di obbedire con gli occhi aperti e coscienza vigile.

Vi sono comandamenti che non ammettono incertezze, tanto sono precisi e sufficientemente posseduti dalla coscienza cristiana. Per timore di eccessi o di esaltazioni criminose, non si deve negare ogni valore e ogni autonomia nel giudizio e nell’azione alla coscienza. Non occorre che intervenga ogni momento la Chiesa a ricordare e a precisare ciò che ormai costituisce il pacifico possesso di innumerevoli coscienze cristiane; molto più ch’essa non potrebbe in certe subitanee emergenze pubbliche o private essere tempestivamente presente. L’iniquità di certi ordini o di certe situazioni impostemi non può venir giudicata sul campo che dalla mia coscienza; poiché solo la mia coscienza ne è chiamata a rispondere davanti a Dio e davanti agli uomini.

Per capire che un cristiano non può odiare nessuno, nemmeno il nemico del proprio paese, non c’è bisogno che egli lo chieda al suo parroco o al suo vescovo, tanto meno al papa; e l’obbligo di resistere a tale ingiunzione, qualora ci venga imposta dalla stessa autorità costituita, sgorga evidente appena ne avverte l’immoralità […].

La guerra mette in palio la mia vita e la vita del mio prossimo. I morti non si contano più; i lutti, le rovine sono incalcolabili; le conseguenze morali e spirituali spaventose. Chi ha il coraggio di negare che il più direttamente impegnato nella guerra, colui che va a morire e va a far morire, non abbia diritto di sapere almeno se muore per una causa giusta? “Si tratta – sono milioni e milioni che parlano – della mia vita, la cosa più grande che io ho e di cui Dio solo è il padrone vero; e si pretende che io la metta o la tolga, all’oscuro, con un atto di fede che non so dove appoggiarlo!”.

Morire è una cosa tremenda, ma ancora sopportabile; è il far morire che, per un cristiano, il quale come il Cristo ha per missione di dar vita, è il colmo dell’atrocità!…

“Ditemi almeno perché debbo uccidere!”.

Il “salus reipublicae suprema lex” non ci basta più. La nostra anima cristiana non può essere riportata sul piano assolutista e pagano di ieri, anche se i regimi vi hanno fatto ritorno a bandiere spiegate. La volontà popolare, espressa come era espressa nelle varie forme delle libertà popolari, poteva anche essere un’illusione, tanto facile l’addomesticamento dell’opinione pubblica. Ma almeno veniva riconosciuto, se non ben tutelato, il diritto della persona di prendere la parola in una decisione di vita o di morte. Adesso che in vari paesi è tornato di moda l’assolutismo che giudica della guerra e della pace, e quindi della vita di milioni di creature umane senza nulla chiedere e senza alcuna esitazione, chi può e deve tutelare i diritti inalienabili della coscienza e della vita, della giustizia e della carità, imponendo ai tiranni riflessione e umanità?

Divenuti inutili e spregiati fino al ridicolo i controlli di un potere sopranazionale o societario, se si toglie anche alla coscienza la sua naturale autonomia e il suo diritto di difesa contro le invasioni dello Stato, che cosa rimane dell’uomo e delle sue prerogative divine?

Tra i due eccessi, l’uomo misura di ogni cosa e l’uomo schiacciato da ogni cosa, c’è la linea cristiana che concilia i diritti dell’uomo con i diritti della comunità, la quale non può essere che in funzione del perfezionamento stesso dell’uomo. Un tempo, l’arbitrio del principe obbligava i sudditi a gravi sacrifici, ma le milizie almeno erano mercenarie, quindi volontarie in un certo senso. Oggi, con la coscrizione obbligatoria e la nazione armata, tutti siamo costretti ad accettare il sacro dovere di uccidere e farsi uccidere.

Nella luce di questa disumana realtà va riesaminata dai cattolici, con maggior benevolenza che per il passato, l’obiezione di coscienza, considerata come un tentativo di difesa primordiale della ripugnanza cristiana al mestiere dell’uccidere. In così drammatica situazione, la Chiesa può limitarsi a elogiare il dovere e la fedeltà a esso? Non sarebbe una maniera, sia pure indiretta e bene intenzionata, di togliere il respiro delle coscienze e aiutare l’oppressione?

Risposta ad un aviatore [1941], ora in La chiesa, il fascismo, la guerra, Vallecchi, Firenze 1966.

Prepara la pace

A parte che la guerra è sempre criminale in sé e per sé (poiché affida alla forza la soluzione di un problema di diritto); a parte che essa è sempre mostruosamente sproporzionata (per il sacrificio che richiede, contro i risultati che ottiene, se pur li ottiene); a parte che essa è sempre una trappola per la povera gente (che paga col sangue e ne ricava i danni e le beffe); a parte che essa è sempre antiumana e anticristiana (perché si rivela una trappola bestiale e ferisce direttamente lo spirito del Cristianesimo); a parte che essa è sempre inutile strage (perché una soluzione di forza non è giusta; e sempre comunque apre la porta agli abusi e crea nuovi scontri): qual è la guerra giusta e quella ingiusta? Può bastare l’affidarsi alla cronaca pura, alle semplici date, per stabilire chi attacca per primo, chi offende e chi si difende? […]

Grandi e belle realtà la patria, il popolo, la libertà, la giustizia… Ma esse van servite con la pace: ché la guerra ammazza la patria, la quale, se non è un nome vano, è fatta di cittadini, di case; immiserisce il popolo; fa servi di dittatori o stranieri; e con la miseria eccita furto rapacità e sfruttamento, per cui l’ingiustizia aumenta. Chi ama veramente la patria le assicura la pace, cioè la vita: come chi ama suo figlio gli assicura salute. La pace è la salute di un popolo […].

Noi crediamo però che se qualcuno, comandato a battersi, avesse coscienza chiara e sicura di trasgredire il comandamento di Dio, egli non incorrerebbe nella riprovazione della Chiesa, poiché il rifiuto del cristiano alla guerra, più che una rivolta all’ordine temporale, sarebbe una fedeltà all’ordine eterno. Quando l’ordine temporale non obbedisce all’ordine eterno “è meglio obbedire a Dio che agli uomini”. Perché c’è anche il mito del dovere che può schiacciare l’uomo, ed è ben doloroso che proprio noi cristiani, difensori nati della persona umana, ce ne facciamo i divulgatori. Il bene è lo spazio vitale del dovere. Dove comincia l’errore o l’iniquità, cessa la santità del dovere, la sua obbligatorietà, e incomincia un altro dovere: il dovere di disobbedire all’uomo per rimanere fedeli a Dio […].

Non è giunto ormai il momento, per la teologia, di individuare, di smascherare, di colpire tutte quelle forme mentali, quelle tacite acquiescenze, quelle attività criminose che preparano da lontano ma sicuramente le guerre? Non è giunta l’ora di denunciare energicamente tutte quelle storture blasfeme che tentano di trascinare Dio nei labirinti dell’agguato umano? E perché tanta economia di insegnamenti sopra il delitto di Caino moltiplicato all’infinito, quando tutto lo spirito e la lettera del Cristianesimo è pace, carità, primato dello spirito sulla materia, e soprattutto quando il Vangelo ha lanciato per primo il più realistico, attuale, evidente, dei moniti: “Chi di spada ferisce, di spada perisce”? […]

E allora i casi sono due. Se si condanna la guerra senza eccezioni, si può logicamente rinunciare al riarmo, ma se ne si ammette, sia pure in pochi casi, la doverosità morale di fronte a una guerra dichiarata e creduta giusta, non ha senso predicare e praticare il disarmo. Non si fanno le guerre per perderle. Per noi preparare la guerra, riarmarsi vuoi dire allestire condizioni per la guerra. Le armi si fabbricano per spararle (a un certo momento, diceva Napoleone, i fucili sparano da sé); l’arte della guerra si insegna per uccidere. Se vuoi la pace, prepara la pace; se vuoi la guerra, prepara la guerra. E, dunque, tutto fatalmente logico […].

Se siamo un mondo senza pace, la colpa non è di questi e di quelli, ma di tutti. Se dopo venti secoli di Vangelo siamo un mondo senza pace, i cristiani devono avere la loro parte di colpa. Tutti abbiamo peccato e veniamo ogni giorno peccando contro la pace. Se qualcuno osa tirarsi fuori dalla comune colpevolezza e farla cadere soltanto sugli avversari, egli pecca maggiormente, poiché, invelenendo gli animi, fa blocco e barriera col suo fariseismo. Se la colpa di un mondo senza pace è di tutti, e dei cristiani in modo particolare, l’opera della pace non può essere che un’opera comune, nella quale i cristiani devono avere un compito precipuo, come precipua è la loro responsabilità.
Ogni sforzo verso la pace ha una sua validità: chiunque vi si provi dev’essere guardato con fiducia e benevolenza. Il politico può far delle cernite, porre delle pregiudiziali: il cristiano mai. Il cristiano non può rifiutare che il male, per comporre cattolicamente ogni cosa buona […].

La pace è un bene universale, indivisibile: dono e guadagno degli uomini di buona volontà. La pace non s’impone (“non ve la do come la dà il mondo”); la pace si offre (“lascio a voi la pace”). Essa è il primo frutto di quel comandamento sempre nuovo, che la germina e la custodisce: “Vi do un nuovo comandamento: amatevi l’un l’altro”.
Nella verità del nuovo comandamento, commisurato sull’esempio di Cristo (“come io ho amato voi”), “tu non uccidere” non sopporta restrizioni o accomodamenti giuridici di nessun genere. Cadono quindi le distinzioni tra guerre giuste e ingiuste, difensive e preventive, reazionarie e rivoluzionarie. Ogni guerra è fratricidio, oltraggio a Dio e all’uomo. O si condannano tutte le guerre, anche quelle difensive e rivoluzionarie, o si accettano tutte. Basta un’eccezione, per lasciar passare tutti i crimini.

Per noi queste verità sono fondamento e presidio della pace; la quale non viene custodita né dalle baionette né dall’atomica, ma dal fatto che tutti gli uomini, compaginati in Cristo, formano con lui una sola cosa e hanno diritto di ricevere “una vita sempre più abbondante” da coloro che, per natura e per grazia, sono i suoi fratelli. Per questo noi testimonieremo, finché avremo voce, per la pace cristiana. E quando non avremo più voce, testimonierà il nostro silenzio o la nostra morte, poiché noi cristiani crediamo in una rivoluzione che preferisce il morire al far morire.

Persuasi che solo su questi principi si può fondare la pacifica convivenza dei popoli, noi accettiamo la stoltezza cristiana a costo di parere fuori della storia, che altrimenti continuerà a essere una catena di violenze o, se volete, un susseguirsi di fratricidi, cioè l’antistoria, e proponiamo: di renderne pubblica testimonianza, rifiutandoci a ogni svuotamento di essi, sia teorico che pratico; di accettare solo quei mezzi di fare la pace che non negano la pace, sia nei rapporti di nazione e di razza, che nei rapporti di classe e di religione, riprovando e condannando egualmente qualsiasi strumento di ingiustizia e di sopraffazione anche se si presenta sotto il nome di dovere; di creare un movimento di resistenza cristiana alla guerra, rifiutando l’obbedienza a quegli ordini, leggi o costituzioni che contrastano con la coscienza di chi deve preferire il comandamento di Dio a quello dell’uomo.

Se la guerra è un peccato, nessuno ha il diritto di dichiararla, neanche un’assemblea popolare. Se la guerra è un peccato, nessuno ha il diritto di comandare ad altri uomini di uccidere i fratelli. Rifiutarsi a simile comando non è sollevare l’obiezione, ma rivendicare ciò che è di Dio, riconducendo nei propri limiti ciò che è di Cesare.
Mettendoci sul piano del Vangelo e della Chiesa, non rinunciamo a difendere la giustizia, né confondiamo il bene col male prendendo una attitudine rassegnata o neutrale. La “pecora” che non intende farsi “lupo” non dà ragione al lupo; lasciarsi mangiare è l’unica maniera di resistere al lupo come pecora e di vincerlo. Questo è un atto di fede tremendo. Ne abbiamo così piena consapevolezza che la prima testimonianza che domandiamo a Dio di poter dare è proprio questa: credere che la pace non si può fare senza questa fede, che è venuta l’ora di questa fede.

Tu non uccidere [1955], Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 2002